L’Opera porta male? Solo se cantata male
Parma apre con «La forza del destino»
ELZEVIRO
L’Opera porta male? Solo se cantata male
Parma apre con «La forza del destino»
«Il gran teatro del mondo». Questa citazione ben si attaglia a definire l’Opera più eteroclita di Verdi, La forza del destino, tuttavia uno dei suoi capolavori. Non v’è unità di tempo, di luogo e d’azione. I personaggi sono sballottati dalla Spagna all’Italia fra cori di mulattieri e loro clienti, preghiere di pellegrini «che vanno al giubileo», preghiere di frati in convento, cori di soldati guidati da una zingara indovina (Rataplan). L’Opera stessa fu sballottata e rifatta. Tratta da un Dramma del duca di Rivas, venne commissionata a Verdi da Pietroburgo. Nel finale, giusta l’originale spagnolo, il tenore si precipita bestemmiando in un crepaccio che mena diritto all’inferno. Qui si abusa, diceva Totò. Verdi volle darne una versione definitiva, per fortuna, e sebbene anch’essa si termini con un’ecatombe la voce dello spirito religioso la fa spegner pianissimo in modo meditativo e commovente.
La mancanza di unità va combattuta dall’intuizione del direttore d’orchestra. Quando Gino Marinuzzi la incise nel 1942, lasciando una delle più importanti testimonianze della storia del disco, pretese che l’incisione avvenisse tutta di fila, come a teatro, perché solo così poteva imprimersi negli interpreti una partecipazione all’assurda vicenda. Un Amico carissimo mi ha insegnato tra l’altro questo: che il direttore, mentre il marchese di Calatrava apre l’Opera col fatidico «Buona notte, mia figlia» già deve pensare a «Non imprecare, umiliati», lo stupendo cantabile con che il Padre Guardiano la chiude.
Con La forza del destino s’è inaugurata la stagione del Teatro Regio di Parma. Trattandosi di Opera corale i primi elogi vanno alla magnifica prestazione del Coro diretto dal maestro Martino Faggiani: è difficile ascoltare un La vergine degli angeli così etereo e luminoso, un Rataplan così leggero e variato negli accenti e nelle oscillazioni ritmiche che il direttore Gianluigi Gelmetti giustamente adotta. Quanto al concertatore, non so se dirigesse il capolavoro per la prima volta. Sembrava l’avesse diretto sempre, tanta era l’esperienza e la solidità che manifestava, la perfezione negli accompagnamenti, la tensione verso la sintesi.
Alcuni cretini ritengono da generazioni che quest’Opera sia di mal augurio. Ogni mio giudizio come critico musicale è opinabile, ma quando si tratta di casi di jettatura superiorem non recognosco. E cito la battuta del maestro Tullio Serafin che diceva il capolavoro portare male quando non c’è un buon tenore, un buon soprano, un buon baritono, un buon mezzosoprano, un buon «baritono brillante». La compagnia di canto è scelta con cura. Dimitra Theodossiou è stata applauditissima per la passione della sua interpretazione che non si avvale di abuso di «vibrato». Vladimir Stoyanov, con dizione perfetta ed energia, sembra l’erede di Leo Nucci. Aquiles Machado è un Don Alvaro capace anche di cantare piano. Roberto Scandiuzzi è un degno Padre Guardiano. Carlo Lepore è un Melitone finissimo che accentua la malignità e la forza fisica del personaggio confutando in rebus la sciocca opinione di chi vede in lui una parentela con Don Abbondio, malgrado la venerazione che Verdi portava al Manzoni. La sola Mariana Pentcheva è parsa in difficoltà nel Rataplan.
Regia, scene, costumi, coreografia e luci si debbono a Stefano Poda. L’ambientazione, fascinosa alquanto, si basa sopra grandi pannelli mobili istoriati. La recitazione dei cantanti, tranne Curra (Adriana Di Paola) è curatissima. Le coreografie effettuate dal coro suscitano perplessità. Gli effetti della combinazione dei pannelli sono geniali.
Da ultimo un elogio al primo clarinetto Stefano Franceschini per i suoi begli interventi solistici.
Paolo Isotta
01 febbraio 2011
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